27 dicembre 2012

Farina e grano per tutti



La guerra di successione spagnola, nelle cui cronache si nomina Cavarzere per fatti avvenuti nel 1701 e nel 1706, ebbe inizio dopo la morte di Carlo II, re di Spagna, andatosene senza avere un erede diretto, ma lasciando vastissimi territori sui quali le potenze del tempo misero subito gli occhi, perché si trattava sì di stabilire chi dovesse succedere al defunto, ma pure di spartirsi almeno una parte dello sterminato dominio spagnolo. Ad accampare maggiori diritti, anche per ragioni di parentela oltre che politiche, erano Luigi XIV di Francia e l'imperatore d'Austria Leopoldo I, i quali, non trovando un accordo, sostenuti dai rispettivi interessati alleati ricorsero ben presto alle armi. La Repubblica di Venezia, stretta fra i due contendenti (la Lombardia apparteneva alla Spagna, alleatasi con la Francia) non se la sentì di schierarsi con l'uno o con l'altro e si dichiarò neutrale. Accettò di fatto che lo scontro avvenisse nel suo territorio, com'era da prevedere, dal momento che tanto gli spagnoli e i francesi quanto gli imperiali guidati dal principe Eugenio di Savoia avevano ogni convenienza a farsi la guerra in casa d'altri. A partire da maggio del 1701 decine di migliaia di soldati e di cavalli entrarono perciò nel Veneto senza che Venezia nella sua impotenza potesse impedirlo. Si ritrovò anzi obbligata a rifornire i due eserciti, per amore o per forza, di tutto il richiesto dietro la solenne promessa di un rimborso. Promessa che i francesi mantennero solo per qualche tempo, e gli imperiali non onorarono per niente. Ai mancati pagamenti si aggiunsero le devastazioni nei campi, nei vigneti, nei pascoli, e poi i saccheggi, le violenze alle persone, le attività economiche e commerciali ostacolate o impedite. In questo stato di cose si giunse ad ottobre, quando le cronache del tempo fanno per la prima volta il nome del nostro paese. 


H. Rigaud: Il maresciallo de Tessé



Quel sabato 8 ottobre 1701 la gente di Cavarzere se lo ricordò a lungo. Era stato il giorno della manna piovuta dal cielo. D'improvviso il paese si era animato in un continuo vociare e chiamarsi, in un generale frenetico andirivieni, con l'affannoso accorrere di chi abitava lontano, poiché la notizia dell'incredibile evento era volata in un baleno, anche al di là del fiume. E nei giorni seguenti, sulla tavola dei popolani che avevano colto l'occasione e s'erano dati da fare, era comparso  il pane: una rarità, anzi una ghiottoneria per chi doveva accontentarsi della solita polenta.
Tutto era cominciato per lo scorno subito dal maresciallo francese De Tessé. Deciso a cogliere di sorpresa alcune postazioni nemiche, aveva commesso l'imprudenza di informare del suo piano un collega, senza che ce ne fosse necessità, inviandogli un messaggio non cifrato per mezzo di un corriere che venne catturato dagli imperiali, i quali ebbero il tempo di disporsi in difesa. De Tessé, ripreso per la sua leggerezza, cercava una rivincita e progettò allora di distruggere i magazzini di viveri allestiti dal nemico. Al campo di Goito, dove si trovava, fu informato dalle spie che uno di questi depositi era a Cavarzere, verso la foce dell'Adige, molto lontano da dove i due eserciti si fronteggiavano. Un deposito di considerevole entità, gli venne riferito, e di grande importanza per gli imperiali, considerato che la stagione avanzava e non avevano speranza di ricevere dall'Austria i viveri necessari a sfamare le truppe costrette a svernare da qualche parte in Italia. Certo Cavarzere era distante parecchie miglia, ma poco sorvegliato, e De Tessé decise di tentare l'impresa. Ottanta granatieri comandati da ufficiali di provata capacità presero a discendere il Mincio e il Po su quattro barche e risalirono poi il canale di Loreo senza trovare ostacoli da parte degli imperiali, e naturalmente nemmeno delle milizie veneziane alle quali di sicuro non era invece sfuggito un così insolito passaggio. Giunti sull'Adige, puntarono su Cavarzere. Qui gli imperiali avevano apprestato alla parte destra un locale nel quale andavano ammassando grano e farina. Da tempo i ventuno mulini sul fiume macinavano senza sosta giorno e notte per quel deposito affidato alle cure di un commissario e guardato da quindici soldati, che sorpresi dai granatieri si arresero senza opporre resistenza. Nel magazzino i francesi trovarono accatastati ben 6.000 grandi sacchi di frumento e di farina, equivalenti a 18.000 stara. Era molto più di quanto si aspettavano e si presentò un problema: come fare per eseguire gli ordini ricevuti? Appiccare un incendio in paese sarebbe stato interpretato come un atto di guerra contro Venezia. L'unica cosa possibile era gettar tutto nel fiume. Per compiere un tale lavoro in fretta, essendoci il pericolo di venir sorpresi da truppe nemiche attestate ad alcune miglia lungo il corso superiore del fiume, avevano però bisogno che gli si desse una mano: seimila sacchi erano troppi da trasportare, anche per ottanta granatieri. Ma poi, con quale coraggio farlo, sotto gli occhi di tanta povera gente che nell'aspetto mostrava quanto stentasse ad avere giorno dopo giorno qualcosa da mangiare, e che pativa forse la fame? Scelsero la via della generosità, anche perché vi furono costretti. Vennero spalancate le porte del magazzino e i popolani, accorsi incuriositi per l'inaspettato arrivo di quei francesi di cui tanto si parlava, ascoltarono l'incredibile offerta: prendetevi quanta farina e quanto grano volete, ma fate presto, prima che gettiamo tutto in acqua. Non vi fu bisogno di ripetere l'invito. Di certo non era mai accaduto di vedere, come nelle ore che seguirono, un accalcarsi di uomini e donne così solleciti e pieni di buona volontà nel portar via grano e farina col generoso proposito di alleviare a quei soldati la fatica di doverseli altrimenti trascinare alla riva dell'Adige. Il festoso assalto continuò a lungo, ma seimila sacchi erano una quantità di tutto rispetto e i francesi, dopo averne caricati un certo numero sulle loro barche (e probabilmente anche su qualche altro battello requisito sul posto), cominciarono a disperdere sul fiume quanto ancora rimaneva nel magazzino. Compiuta l'impresa, sei ore dopo l'arrivo, lasciato a Cavarzere il commissario ammalato e portando con sé i quindici prigionieri, ridiscesero indisturbati il fiume alla volta di Loreo e del Po. Appena se ne furono andati, il podestà spedì un corriere a Venezia, dove grande fu la sorpresa per un simile fatto avvenuto lontano dal teatro delle operazioni militari. Ma una sorpresa maggiore si ebbe di lì a qualche giorno, quando l'ambasciatore austriaco – che insinuava vi fosse stato un tacito accordo con i nemici – dopo aver saputo dal commissario com'erano andate le cose avanzò la richiesta che il governo veneziano reintegrasse il grano e la farina perduti. La risposta, data direttamente a Vienna, fu decisa: Venezia aveva già fornito quanto era nelle sue possibilità e ora doveva pensare ai bisogni della popolazione; quanto poi alla custodia del magazzino, non era certo affidata ai soldati della Repubblica.
La perdita di quei sacchi fu un duro colpo per gli imperiali, e un mese dopo il principe Eugenio tornava ancora a lagnarsene davanti al generale Molin con aria di aperto rimprovero, sostenendo che avrebbe dovuto proteggere e conservare il magazzino. Evidentemente si riferiva al fatto che per impedirne la distruzione i soldati veneziani acquartierati in paese non avevano mosso un dito e se n'erano stati a guardare; senza poi contare che il deposito non si era potuto fare all'interno del castello, dove sarebbe stato meglio difeso. Alle rimostranze del principe il Molin ricordò che la Repubblica scegliendo la neutralità aveva dichiarato ai due contendenti che la campagna era libera per le loro manovre, ma l'entrata nei luoghi fortificati e murati sarebbe stata assolutamente vietata sia alle truppe che agli effetti dei loro eserciti. Agli imperiali non rimase che rafforzare la guardia ai propri magazzini, e fecero bene, perché altri soldati che De Tessé aveva incaricato di ritentare a Castelbaldo il colpo così ben riuscito a Cavarzere rinunciarono ad eseguirlo.


G. Ceruti: Vecchia contadina



Quei francesi che da noi, a smentire quanto si raccontava in giro, nel 1701 s'erano comportati da gentiluomini di provvidenziale generosità, ritornarono in paese nel 1706, quando fra Luigi XIV e l'imperatore d'Austria riprese lo scontro per la successione in Spagna. Anche stavolta gli eserciti dei due contendenti si disposero ad affrontarsi nel territorio della Repubblica, dichiaratasi di nuovo neutrale e rassegnata a subirne le pesanti conseguenze. Poiché il principe Eugenio si apprestava a scendere da Trento per recare  aiuto a Torino assediata dai francesi, il duca di Vendome pensò di sbarrargli la strada verso la Lombardia e il Piemonte. Per tre mesi fece costruire ripari lungo la riva destra dell'Adige. Ottimamente difesi da fossati, palizzate e ridotti i soldati spagnoli e francesi erano pronti a rintuzzare qualsiasi attacco degli imperiali. Dal Garda fino a Legnago e Badia era stata creata una ininterrotta linea fortificata, dietro la quale il duca aveva schierato tutte le truppe di cui disponeva. Ma da Badia in giù, fino alla foce, la riva destra dell'Adige era rimasta sguarnita. Niente trincee né ripari, solo qualche drappello di cavalleria incaricato di perlustrare, e piccoli distaccamenti di dragoni a Retinella, Loreo, Tornova e Cavarzere. Truppe molto lontane da Badia e isolate, ma che si giudicavano protette dall'Adige, indispensabili per segnalare eventuali spostamenti dei nemici qualora avessero tentato di gettare un ponte, magari a Cavarzere, come già avevano fatto nel 1701. Passando di lì si sarebbero lasciati alla destra l'Adigetto, arrivando in breve ad Adria e al Po. Ma questa era una manovra che il duca di Vendome riteneva del tutto improbabile: perché mai il principe Eugenio avrebbe tentato di aprirsi la strada proprio in un territorio pieno di paludi e solcato da tanti corsi d'acqua? Più probabile comunque che tentassero di passare fra Boara e Lusia, dove il fiume era stretto e sarebbero bastati sei o sette battelli accostati per creare un ponte.
Ma il principe aveva individuato il punto debole della difesa studiata da suo cugino (il duca ed Eugenio erano figli di due sorelle), e ne seppe approfittare. Al fine di confondere i nemici e stancarli, per vari giorni promosse tre apparenti tentativi di passaggio dell'Adige: a Rivoli fra le montagne, sotto Verona e un po' sopra Legnago con largo impiego di artiglieria e intenso cannoneggiamento. Era invece vero il tentativo condotto personalmente dal principe contro Castelbaldo e Masi, dove i francesi avevano costruito un ponte attestandosi anche alla sinistra del fiume. Un quinto tentativo, da condurre speditamente e in segreto, fu assegnato al colonnello Paté. Costui, con un grosso distaccamento di truppe senza bagagli al seguito, si mosse la notte del 4 luglio scendendo lungo la sinistra del fiume alla ricerca di un luogo adatto al passaggio, che dopo un'estenuante marcia di cinquanta chilometri troverà in una delle volte con banchi sabbiosi fra Pettorazza e Rottanova, villaggi che allora si trovavano entrambi sulla riva sinistra. Intanto, nella giornata del 5 una grossa imbarcazione dei veneziani aveva risalito l'Adige arrestandosi proprio di fronte a Pettorazza, mentre quattro barche cariche di pietre che l'avevano seguita le si disponevano ai lati occupando quasi per intero la larghezza del fiume. I pochi francesi dislocati in quel settore – quasi tutti i soldati erano stati richiamati verso Badia per contrastare l'attacco del principe Eugenio – pensarono a preparativi per formare un ponte e intimarono ai veneziani di ritornarsene indietro, verso Cavarzere, cosa che si decisero a fare soltanto dopo alcuni colpi ben assestati sparati da un cannone trainato fin lì in tutta fretta da Boara. Che a Venezia convenisse facilitare il passaggio agli imperiali era indubitabile: la guerra si sarebbe spostata verso la Lombardia e il Piemonte, liberando i territori della Repubblica da pericoli e fastidi. E d'altra parte Venezia, per amor di pace, aveva sempre accettato di soddisfare le richieste dei due belligeranti, si trattasse di fornire grano, foraggi, viveri, animali da macello e da traino, carri o, come sembra nel nostro caso, barche. E infatti la notte fra il 5 e il 6 luglio mezzo migliaio di soldati e alcuni cavalieri di Paté passarono l'Adige alla Pettorazza su piccole barche, senza incontrare resistenza dalla riva opposta. Con legname e attrezzi subito forniti dai veneziani venne costruito un ponte ed entro la mattina del 7 già varie migliaia di imperiali, attraversato il fiume, cominciarono a risalire verso Boara e Lusia. Per evitare l'accerchiamento i francesi furono costretti a ritirarsi. Lasciarono libero il passaggio agli imperiali anche a Badia, senza rompere l'argine dell'Adige per impedire l'avanzata del nemico come il duca di Vendome aveva in animo di fare. La via al principe era ormai aperta. In breve raggiunse Melara, riuscì ad attraversare il Po e cominciò a rimontarlo tenendosi sempre alla destra, senza che l'esercito francese, attardato nelle sue fortificazioni e dislocato quasi tutto alla sinistra del fiume, potesse efficacemente impedirgli la marcia verso Torino assediata, che Eugenio di Savoia raggiunse ai primi di settembre e liberò, completando in tal modo una delle sue più celebrate azioni di condottiero.

Carlo Baldi, 28 marzo 2014


J. van Schuppen: Il principe Eugenio di Savoia



FONTI


Recueil des Gazettes, nouvelles ordinaires et extraordinaires... de l'année 1701.
Lion, 1701. Pag. 179,183,194

Mercure historique et politique...Mois de Juillet 1706.
Tome XLI. La Haye, 1706. Pag.129-131

Abregé de la vie de Malborough et du Prince Eugene de Savoie...
Amsterdam, 1714. Pag. 109-110

Istoria del Regno di Luigi XIV, Re di Francia e di Navarra...
Tomo terzo. Venezia, 1724. Pag. 140-141

Memorie storiche della guerra tra l'Imperiale Casa d'Austria e la Reale Casa di Borbone per gli Stati della Monarchia di Spagna...
Venezia 1734. Pag. 340-342

Istoria d'Europa che incomincia da' negoziati della Pace di Riswich del 1697...
Tomo sesto, Napoli, 1743. Pag 308-310

Mémoires militaires relatifs a la succession d'Espagne sous Louis XIV...
Tome VI, Paris, 1845. Pag. 160-162, 195-198 

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