Il mio diario
Settembre 1942 – Aprile 1946
Domenico Pacchiega
Testo riveduto e introdotto da Carlo Baldi
Tipografia Tiengo, Cavarzere, 2001. Pagine 128
Settembre 1942 – Aprile 1946
Domenico Pacchiega
Testo riveduto e introdotto da Carlo Baldi
Tipografia Tiengo, Cavarzere, 2001. Pagine 128
Dall'introduzione...
Esisteva un tempo alla destra del fiume, fra il muraglione e i vicini orti dirimpetto al ponte stradale, l'antica Calle Angiolielli. Nell'aprile del 1945, qualche giorno prima della liberazione, le bombe sganciate a grappolo per colpire il ponte ne polverizzarono gli edifici e la cancellarono dalla toponomastica del paese. In una casa di quella dimenticata Calle, una sera di settembre del 1942, anno XX dell'Era Fascista e terzo d'una guerra disgraziata ricca di reali successi solo nella propaganda del regime, Domenico Pacchiega, ragazzo non ancora diciassettenne, scriveva in stenografia la prima pagina del suo Diario. Un'idea venutagli riflettendo su come sarebbe stato piacevole in futuro poter ricordare fatti e circostanze della vita, che altrimenti il tempo avrebbe pian piano sfumato e dissolto nell'oblio. Poteva essere un fugace proposito giovanile, sostenuto al momento dal piacere che gli procurava l'uso d'un sistema di scrittura veloce e in certo modo “segreto”; si trasformò invece, più che in un'abitudine, in un impegno cui attese sollecito per oltre mezzo secolo...
Cominciò a scrivere registrando episodi che dalla sfera strettamente personale s'allargarono subito all'ambiente di lavoro e poi toccarono, per il sopraggiungere di eventi drammatici, le vicende dell'intera comunità. Tanto il clima politico che respirava in fabbrica (la Distilleria, dov'era stato appena assunto), quanto la guerra ogni dì più vicina fecero capire al ragazzo come i casi della sua vita fossero parte d'una vicenda più ampia, che coinvolgeva tutti. Se dunque era interessante annotare riflessioni, progetti e fatti privati, non meno interessante ed anzi necessario gli parve scrivere di altri accadimenti che concorressero a serbare la memoria collettiva. Eccolo dunque a un certo punto, mentre per scampare alle bombe e ad altri pericoli si sposta qua e là con il suo Diario in mano, divenire quasi un piccolo cronista della tragedia che va investendo il paese, attento a riferire ciò che ha visto con i propri occhi, scrupoloso nell'accertare la veridicità di testimonianze altrui...
Domenico Pacchiega nel 1945 |
Per chi non li ha vissuti in prima persona, e specialmente per i giovani, gli anni della guerra sono un evento remoto, spoglio ormai di ciò che costituiva la realtà d'ogni giorno vissuta dalla gente: gli stenti, le preoccupazioni, la paura e il dolore, il desiderio di pace e la speranza. Un ventaglio di sentimenti, di gesti quotidiani che adesso ci viene ridato non con i ricordi velati dei più anziani, ma con la spontaneità di un adolescente di allora. Ed è proprio l'età dell'autore che bisogna tenere presente leggendo il Diario. Egli vive le sue esperienze nell'ambito ristretto della famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro. Ragazzo di umile condizione, buono e sensibile, si mostra desideroso di apprendere, di migliorare, di allacciare nuovi rapporti. Trova il tempo di coltivare musica e lettura, ma lo vediamo anche cercare lavori aggiuntivi per portare a casa qualche soldo in più, oltre alla paga della fabbrica. Sono anni difficili, addirittura di fame, alla quale Pacchiega, ragazzo in crescita e di robusto appetito, nella sua sincerità accenna più volte con naturalezza. Come fa del resto con la paura che lo prende durante le incursioni aeree.
Manifesta, in alcune pagine, la sua inquietudine per il domani colmo d'incertezza, ma nonostante il turbamento per i molti pericoli reali o temuti accade talvolta che i suoi giovani occhi colgano stupiti certi suggestivi momenti della natura che gli rasserenano l'animo. Così il chiarore lunare nel silenzio profondo d'una notte estiva nel '44; o, dopo sonni agitati, l'incanto della campagna in un'alba primaverile che gli suscita un desiderio d'amore; oppure, la sera precedente la liberazione, in un casolare sperduto nella campagna allagata, il fascino della luna sospesa sull'acqua mentre lontani cadono e si spengono gli ultimi bengala...
Alcune cronache documentano l'antifascismo dei lavoratori all'interno della Distilleria. Pur nel timore di denunce si rifiutano i rituali del regime, si distribuiscono volantini, si trova il modo si festeggiare il Primo Maggio. Se ci si piega a certe imposizioni, (ma non tutti lo fanno) è solo per la paura di perdere il posto di lavoro. Significativa l'abitudine – quasi un rito – di cantare la Marsigliese anche in odio ai tedeschi invasori, brindando ad ogni loro sconfitta. In fabbrica si commentano le notizie talora dolorose diffuse da Radio Londra, ascoltata di sera nel segreto della propria casa magari in compagnia di amici, e si scambiano le preoccupazioni per un figlio o un parente al fronte, che da tempo non danno notizie di sé. È in fabbrica, come del resto in altri posti di lavoro e nelle case, che discutendo si coglie l'assurdità e persino il ridicolo dei propagandistici annunci della radio ufficiale. Si spiega così, qualche giorno dopo lo sbarco alleato in Normandia, il gesto spontaneo del pubblico domenicale che durante la proiezione del Film Luce si mette compatto a fischiare alla vista di Mussolini mentre passa in rassegna le truppe della R.S.I. con la presumibile alterezza dei suoi bei tempi. Sebbene l'opposizione al regime sia sempre più larga e condivisa, in Distilleria rimangono dei possibili delatori e Pacchiega nei suoi appunti deve rilevare con stupore l'incauto entusiasmo con cui si organizza il recupero delle armi d'un aviolancio, mentre in altra occasione riferisce senza commento l'imperdonabile ingenuità d'un “comandante” partigiano costata la vita a cinque giovani...
Qua e là emergono valori e atteggiamenti oggi affievoliti o mutati: la solidarietà, la fede, la frugalità, la semplicità nel divertimento, magari anche le baruffe che nella loro chiassosità avevano qualcosa di liberatorio, mentre ora la gente preferisce odiarsi in silenzio. In un mondo agreste e povero una corsa ciclistica, una recita della filodrammatica, un'esibizione di dilettanti, o un film rappresentano la rivincita della voglia di vivere e della fantasia non solo sui pericoli e sulle angustie quotidiane, ma anche su una realtà che si intuisce percorsa da arroganza e piccole violenze, nel sospetto di delazioni, nel timore di improvvisi controlli notturni...
Le pagine finali del Diario riconducono all'ambiente della Distilleria, fra gli uomini che hanno avuto un ruolo nella maturazione del giovane autore. È il momento dei bilanci, del rimpianto per le persone amiche travolte dalla guerra. Si rievocano le esperienze vissute, le prove superate. Si medita su chi ha saputo furbamente adeguarsi e ottenere posti di rilievo, dimentico degli entusiasmi per il passato regime. I propositi di ricostruzione della fabbrica semidistrutta si associano all'auspicio di poter costruire anche una vita migliore, su basi democratiche. Si respira un'aria nuova e non manca la speranza nel futuro. Eppure la tranquilla manifestazione dei lavoratori, liberi per la prima volta di sfilare alzando fiduciosi i cartelli con le proprie richieste ma inascoltati dalle autorità, sembra anticipare quelle che piene di rancore e sconforto accompagneranno i lunghi anni di declino della fabbrica....
(“Il mio diario”. Introduzione, pagg. 9-14)
31 agosto 1944. Decine di bombe sganciate sopra il ponte della ferrovia (Archivio Giancarlo Tagliati) |
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