Il largo recinto costruito nel 1948 a ridosso del muraglione in piazza Manin, rimasta fino ad allora libera per le bancarelle del venerdì, era formato da tavole molto alte. Per vedere ciò che nascondeva dovevo spiare da qualche fessura, e il posto migliore era tra le assi del cancello. Vi stavano raccolti i marmi ancora utilizzabili degli altari del duomo bombardato, ma a suscitare la mia curiosità più che le colonne, i capitelli, o altri elementi decorativi erano i resti delle statue: la Madonna, Gesù, alcuni santi e angioletti. Vi era anche, posto in alto, un busto virile che in quella celeste compagnia mi sembrava quasi un intruso.
Chi fosse il misterioso personaggio l'avrei scoperto soltanto molti anni dopo: si trattava di mons. Marco Mainardi. Nato nel 1671, apparteneva alla famiglia cavarzerana forse più importante, i Mainardi Mercante, i cui membri fin dal Cinquecento sono citati nelle cronache perché, secondo un'antica consuetudine, si alternavano con pochi altri “signori” locali nel governo del paese. Come lascia intendere il loro detto, questi Mainardi erano gente che sapeva condurre i propri affari (il toponimo Marcanta ricorda una loro proprietà), ma erano anche, per tradizione, uomini di legge o di chiesa: notai, avvocati, sacerdoti. Ecco perché, in quello scorcio del Seicento, dei quattro figli di Giovanni Mercante soltanto Gerolamo si dedicò agli affari, Paolo scelse il notariato, mentre al sacerdozio si sentirono chiamati Giuseppe – futuro arciprete di Cavarzere – e Marco, che dopo l'ordinazione sacerdotale si addottorò in utroque jure, cioè in diritto civile e canonico, un ambito nel quale non tardò a distinguersi. Divenne così auditore e procuratore fiscale della Curia patriarcale di Venezia, due titoli equivalenti a giudice istruttore e a pubblico ministero nella preparazione o nella discussione delle cause interessanti la diocesi veneziana. Nel 1714 lo troviamo promotore nel sinodo convocato dal patriarca Pietro Barbarigo, il quale due anni più tardi lo nominò suo vicario generale, per cui ebbe anche il titolo di protonotaro apostolico onorario. Mons. Mainardi fu confermato vicario dai successivi patriarchi Marco Gradenigo, Francesco Antonio Correr ed Alvise III Foscari. Evidentemente ne conoscevano ed apprezzavano la profonda dottrina giuridica, l'esperienza, la diplomazia, e insieme le qualità umane e sacerdotali che lo rendevano vicino al loro impegno pastorale. Alieni dagli intrighi politici, questi patriarchi lasciarono infatti memoria di carità, di vita frugale, di sollecitudine per il bene non solo morale della povera gente.
Mons. Mainardi impiegò i 37 anni del suo vicariato a risolvere controversie legali, a comporre questioni di carattere religioso, a curare i rapporti con le autorità civili e con le numerose parrocchie dell'archidiocesi, ad amministrare i beni ecclesiastici, a seguire le pratiche per il restauro o la costruzione di nuove chiese, e naturalmente anche a rappresentare il patriarca in occasione di cerimonie o negli incontri con personalità. Giunto a ottant'anni, un'età per quel tempo avanzatissima, forse per motivi di salute lasciò l'incarico, e in Curia – credo non sia azzardato supporlo – ci si adoperò allora perché ad un servizio prestato tanto a lungo e in modo encomiabile corrispondesse un alto segno di riconoscenza. Segno che gli giunse da Roma con la nomina a Conte palatino del nipote Giovanni Mainardi, decisa da Benedetto XIV Lambertini con breve apostolico del 22 settembre 1753.
Mons. Mainardi si spense il 23 agosto 1754. Il fratello arciprete con i due nipoti, cioè il conte Giovanni e Francesco, figli dell'altro fratello Gerolamo, fecero domanda al collegio della chiesa di San Moisè, la parrocchia del defunto, di poter disporre di un proprio sepolcro all'interno del tempio. Il caso volle che anni prima il patrizio Osvaldo Duodo avesse ottenuto di potervene costruire uno poco oltre l'entrata maggiore, in una posizione quanto mai visibile, ma a precise condizioni che in seguito egli non aveva osservate, né mostrava di voler osservare. Per questo il collegio annullò la concessione fatta al Duodo e il 7 settembre 1754 con regolare atto notarile cedette in perpetuo il sepolcro ai Mainardi richiedenti. Nella lastra tombale di marmo rosso, ormai corrosa e danneggiata, solo poche parole della bella epigrafe che vi era incisa sono ancora leggibili. Ma fortunatamente trovo il testo latino riportato in un antico libro, e qui lo trascrivo accompagnandolo alla traduzione.
Pietra tombale di Marco Mainardi in San Moisè (Foto di Massimo Baldi) |
Iscrizione sulla lastra tombale in San Moisè, con traduzione |
Se a Venezia i Mainardi avevano provveduto ad un onorevole sepolcro che perpetuasse la memoria del loro congiunto, così vollero che una testimonianza di lui rimanesse anche nel paese natale: un busto in marmo collocato nel duomo poco tempo prima della sua demolizione. Quel busto era l'omaggio a un cittadino meritevole d'essere ricordato e un atto d'amore dei parenti, non disgiunto magari da una punta di orgogliosa ostentazione famigliare. Ma forse era anche un riconoscimento dovuto a mons. Mainardi per la parte che potrebbe avere avuto in merito alla costruzione del nuovo duomo. Suo fratello Giuseppe, arciprete dal 1730 al 1758, si era trovato a dover gestire la difficile questione del duomo, un edificio ormai quasi decrepito, eretto secoli prima a qualche metro dall'Adige quando ancora fluiva incassato fra le sue rive senza l'ingombro degli argini. Ma poi il livello del fiume era andato sempre più alzandosi, causando inondazioni che negli ultimi tempi erano giunte a lambire la soglia della vetusta chiesa, di modeste dimensioni e costruita a una quota troppo bassa, mentre a ridosso della facciata le andava crescendo un argine che di tanto in tanto bisognava rinforzare. I pareri sul da farsi erano discordi. Provvedere a un semplice restauro e magari ad un ampliamento? O, come sosteneva l'arciprete Mainardi, costruire un nuovo edificio a una quota più alta, più arretrato rispetto all'argine e soprattutto di forma più maestosa, adatto finalmente ad accogliere una popolazione che in due secoli era triplicata? Dopo anni di discussioni il parere dell'arciprete – chissà quante volte ne avrà parlato col fratello vicario – prevalse. Venezia, alla quale spettava di finanziare in parte la costosa operazione, si lasciò convincere ed approvò infine il progetto di un nuovo duomo con delibera del Senato in data 6 aprile 1747. Era allora patriarca Alvise Foscari, da sempre impegnato nel restauro o nella costruzione dei luoghi di culto, per cui è lecito ipotizzare un suo positivo interessamento, sollecitato dal vicario, anche per la chiesa di Cavarzere.
Nel nuovo duomo, iniziato nel 1755 e benedetto nel 1793, il busto di mons. Mainardi venne collocato sopra la porta a destra del presbiterio, in bella posizione, dirimpetto ai fedeli volti verso l'altar maggiore, e lì rimase fino ai tragici giorni dell'aprile 1945. Recuperato indenne fra le macerie, qualcuno l'aveva poi sfregiato, sorte già toccata ad altri marmi di artistica fattura, per cui l'arciprete Scarpa, temendo nuovi atti di vandalismo o possibili furti, aveva sollecitato la costruzione di un deposito chiuso, sistemato dapprima contro una parete del duomo. Nella primavera del 1959 tanti marmi posti nel recinto di piazza Manin, e con essi probabilmente anche il busto, furono caricati su un camion e portati via senza informare l'arciprete sulla loro destinazione. Non se ne seppe più nulla. Ci rimane tuttavia il testo dell'epigrafe che si leggeva sotto il ritratto di mons. Mainardi. Eccolo insieme alla traduzione.
Interno del duomo di San Mauro prima del 1945 |
Iscrizione sotto il busto in San Mauro, con traduzione |
Giovanni Mainardi, per i meriti dello zio monsignore creato conte palatino (titolo trasmissibile a tutti i suoi discendenti maschi), venne iscritto all'Albo d'oro della nobiltà veneziana con terminazione 25 gennaio 1755. Dovette allora pensare ad uno stemma per il suo casato e come arma scelse “una mano di carnagione uscente da fiamma al naturale, sormontata da tre stelle d'oro” su uno sfondo azzurro. E questo perché, secondo una vecchia leggenda, i Mainardi discendevano da Muzio Scevola, l'eroico giovane romano. Penetrato nel campo etrusco con l'intenzione di uccidere il re Porsenna che assediava Roma, per errore aveva invece ucciso un suo ufficiale. Trascinato davanti al re, Muzio aveva posto la mano destra sul fuoco lasciandola bruciare ed esclamando: “Brucio la mano che ha fallito il colpo...”. Impressionato da quell'atto di estremo coraggio Porsenna tolse l'assedio e rimandò libero Muzio, da allora chiamato Scevola, il mancino, ed anche Manum ardeo (Brucio la mano...). E da Manum ardeo erano appunto discesi – raccontava la leggenda – i Mainardi.
Sebbene consunto, lo stemma è ancora visibile sulla lastra tombale nella chiesetta dell'Assunta a Ca' Labia. Lo era pure sul portale dell'antico palazzo di piazzetta Mainardi fino agli anni Cinquanta, quando per insipienza si permise che tanto il portale quanto la balaustra in pietra d'Istria venissero distrutti per far posto all'anonima entrata del cinema Verdi.
Dello stemma comitale ci resta comunque un luminoso acquerello in un volume settecentesco contenente i disegni di tutte le proprietà della famiglia Mainardi. L'autore, un perito abituato a rappresentare case e terreni, aveva forse scarsa dimestichezza con l'anatomia umana. Gli accadde perciò di rappresentare non il palmo della mano destra, come sarebbe stato giusto, ma della sinistra, presa evidentemente a modello mentre con l'altra disegnava.
Stemma dei conti Mainardi (Proprietà Tullio Pavanato) |
Portale con stemma comitale nel palazzo Mainardi, novembre 1951 |
Era destino che il titolo nobiliare più che sul futuro dei due fratelli Mainardi, il conte Giovanni e Francesco, dovesse pesare su quello dei loro figlioli, il conte Girolamo e Marc'Antonio, entrambi notai come lo erano i loro genitori. Lo si vide nel maggio del 1797 quando, all'arrivo delle truppe francesi, insieme alla Repubblica di Venezia sembrò crollare un intero mondo. I due cugini abitavano allora nei palazzi prospicienti la piazzetta che ancor oggi porta il loro nome. Marc'Antonio possedeva i locali a pianterreno dell'edificio posto fra la piazzetta e la calle di S. Maria Maddalena, più 38 campi padovani. Il conte Girolamo possedeva i piani superiori, l'intero palazzo contiguo e 627 campi. Ai tempi nuovi, inaugurati da Bonaparte, i due cugini reagirono in maniera opposta. Marc'Antonio e i figli furono subito per capacità ed attivismo fra i protagonisti del periodo della municipalità provvisoria. Il conte Girolamo invece si tenne in disparte, facendosi notare soltanto dopo l'arrivo delle truppe austriache nel 1798. Era impaurito dalle novità di Francia, timoroso di perdere quanto possedeva, condizionato da un titolo che lo accomunava ai patrizi, ormai ridotti a semplici cittadini. Un titolo che quasi lo obbligava a detestare quei miscredenti Francesi, lui che per privilegio apostolico aveva un oratorio domestico nel quale far celebrare la messa e ricevere l'Eucarestia. Il conte si sentiva solidale con la classe che fino ad ieri aveva comandato ed ora sembrava destinata ad uscire sconfitta. Il cugino aveva invece aderito con prontezza – per ragioni di necessità, di convinzione e magari di convenienza – al nuovo corso politico inneggiante al popolo sovrano. Aveva scelto bene perché, dopo un breve intervallo sotto l'Austria, Cavarzere Destro sarebbe rimasto ininterrottamente dal 1801 al 1813 sotto influenza francese. Marc'Antonio, e più di lui i figli, dimostrarono di avere una spinta che mancava ai titolati parenti che stavano al piano nobile, sopra le loro teste. Li animava quasi un desiderio di rivalsa che trovò sfogo nel ricoprire cariche pubbliche non solo a livello locale e nell'acquisto di vaste proprietà che nel 1831, alla morte di Marc'Antonio, sommavano ormai a circa cinquemila campi con case, costruzioni agricole, palazzi e oratori.
Carlo Baldi, 31 agosto 2014
I due palazzi dei Mainardi nel 1784 (Proprietà Tullio Pavanato) |