Visita al palazzo della contessa Fiordelise

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    Il conte Paulo Labia è morto da pochi giorni ed oggi, 27 marzo 1765, abbiamo l'occasione di poter entrare in questo suo palazzo di campagna costruito vicino al Tartaro. Accompagneremo il perito incaricato di stendere l'inventario dei beni lasciati dal defunto. Si sa che il palazzo e la chiesetta della Beata Vergine Assunta resteranno alla moglie, la contessa Fiordelise Emo; ai figli maschi toccheranno la monumentale barchessa, il bestiame, le terre.
    Il conte era venuto qui proprio qualche settimana fa. Bisogna dire che è stato davvero sfortunato. Se n'è andato ancora abbastanza giovane, come uno qualsiasi dei tanti disgraziati di queste parti distrutti dalle fatiche e dagli stenti. Lui, che aveva ogni possibilità di risparmiarsi e di trattarsi bene.
    Quanto fosse ricco lo sanno tutti: campi fertili a migliaia – senza esagerazione, – palazzi con decine di stanze, perfino chiese. E ducati, naturalmente. Un gran signore, di bell'aspetto e sempre elegante, con una splendida donna come moglie: una delle bellezze più celebri di Venezia, ai suoi tempi.
    A Cavarzere il conte veniva per la caccia in valle ed anche per dare un'occhiata al lavoro del fattore. Qualche ricordo particolare doveva però legarlo a questo palazzo, se ha voluto che restasse alla moglie.


    Rosalba Carriera, Nobildonna veneziana.

    Entriamo. Lo spazioso portego a pianterreno è occupato da alcuni tavolini e da parecchie sedie. Alle pareti ci sono quattro grandi vedute di città e cinque dipinti di minori dimensioni con soaze a fiori dorati. Due soprapporte con “figure profane” abbelliscono gli ingressi verso il Tartaro e verso la campagna. Quando fa buio, otto torziere rosse rischiarano la sala e la scala che conduce al piano nobile.
    Mentre il perito annota ogni cosa, diamo una sbirciatina alla cucina: due armadi e una vecchia credenza addossati alle pareti, due tavole con attorno panchette di legno e careghe de nogara ricoperte di caresina. Presso la finestra, il trepiè con la conca di rame per lavarsi le mani. Sopra il focolare è sistemato il menarosto coi suoi contrappesi, spei e pironi. Altri spiedi a man sono posti lì accanto, insieme alla paletta per la cenere ed alla moleta per le braci.
    Dalla cornice della cappa del camino, dove sono allineati dei candelieri e un mortaretto di bronzo, pendono le cazze di ferro da spumare e da bruo, e la cazza di rame per l'acqua da bere. Di rame sono tutte le posate dentro gli armadi, come lo sono la navicella per lessare, le bastardelle di varia misura per il brodo, la licardina per raccogliere le gocce di grasso quando colano dalla selvaggina allo spiedo, la stessa cògoma del caffé (e naturalmente non mancano la paeletta per tostarlo e il masenìn). Ecco la graèla e le paèle da castagne e da frìzare, ecco lucidi scaldaletti di rame, ecco il paròlo per la lìssia. Ma di paioli e di stagnà nel sottoscala ve ne sono di ogni grandezza.
    In cucina di solito mangia il fattore con la servitù. I conti, quando ci sono, mangiano nel tinello o nella sala al primo piano, in compagnia dei loro ospiti. Il tinello è una stanza ordinata: coltrine di lino bianco alle finestre, mobili colorati, un tavolo rotondo con tappeto, una dozzina di sedie con cuscini di bulgaro. Alle pareti, otto stampe con cornici abbellite da cordoni e fiocchi. Nei cantonali, tra le altre cose, gli sculieretti da caffè, la cògoma per la cioccolata, il vasetto di maiolica per il tè.
    La sala al primo piano è sistemata come una luminosa quadreria. Tele di grandi dimensioni raffigurano le quattro parti del mondo; dipinti “vecchi” sormontano aggraziate portiere in tessuto bianco e turchino, disposte ad ornare coi loro festoni le porte delle camere da letto. Della stessa tela, fissata con borchie, sono ricoperte le dodici sedie che con quattro tavolini di noce nera arredano questo ambiente. La luce e l'aria di primavera entrano dalle finestre e dalle porte che si aprono sugli stretti pèrgoli a nord e a sud, sotto le vedute di Napoli e di Meyland (Milano).
    Rimangono da visitare le camere da letto. Quella dove dormiva il conte è volta a mezzogiorno, dalla parte dell'oratorio. Protetto dall'alta trabacca di tela indiana c'è il lettone con tre stramazzi di lana buona, una coperta imbottida, una seconda di bombaso ed una terza di damasco rosso e giallo. Accanto al letto, la pilella dell'acqua santa. Alle pareti, in cornici intagliate e dorate, la Beata Vergine, un Ecce Homo, una Nascita del Bambin Gesù. Ci sono anche un burrò dipinto, un grande specchio con soaze nere, due servidori con i piedi lavorati al tornio per appenderci vestiti e biancheria, un treppiede di legno dipinto col caìn, il piattello per il sapone, la brocca dell'acqua. Completano l'arredo numerose sedie “d'appoggio” ricoperte di damasco latesin a fiori, un tavolino nero con sedia impagliata e, immancabile in una stanza da letto, il necessario.
    Le altre quattro stanze sono arredate più o meno allo stesso modo: hanno un letto matrimoniale, o una coppia di letti singoli. Ovunque ci sono dipinti o stampe, tende di lino bianco alle finestre, tanti tavolini, tante sedie o sgabelli spesso foderati di damasco o velluto. Qua e là alcune curiosità: una stua da scaldar camìse con fogaretta di ferro, trapunte e coperte di seta (ma anche qualche pagliazzo invece dei materassi di lana), copertte di canapa a paresin gialle e turchine (i colori dei Labia), le rastrelliere da schioppo nuove e vecchie, le fiaschette da polvere e le buste da ballini, il cassòn della biancheria contenente tra gli altri capi 47 nenzoli da patron, 107 tovaglioli da patron anch'essi, 87 canevazze.
    Nelle poche stanze che abbiamo visitato ci sono 28 stampe e ben 52 dipinti, alcuni di grandi dimensioni. Diciotto sono stati catalogati dal perito come “vecchi” e sono probabilmente del Seicento. Prevalgono le vedute di città e i paesaggi; numerosi sono i quadri di soggetto religioso con figure singole (Gesù, la Madonna, svariati santi), ma anche con scene complesse (Storie di San Daniele, Sacrificio di Abramo, Natività); parecchi infine i dipinti con figure profane (Zigante, Grande figura di donna...).

    Pietro Longhi, La partenza per la caccia. (Pinacoteca Querini-Stampalia, Venezia)

    La visita è terminata. Nel palazzo si nota l'intenzione di offrire un ambiente piacevole ad un'allegra brigata di amici, giunti magari per una partita di caccia ai fagiani o alle sforzanelle di passo. E c'è anche un segno delle predilezioni dei padroni di casa, del loro amore per la pittura, non per nulla ad affrescare la dimora veneziana a San Geremia hanno chiamato il più famoso artista vivente, il Tiepolo, che nel salone d'onore ha celebrato in maniera superba Paulo Antonio e Fiordelise sotto le apparenze di Antonio e Cleopatra: l'uno trionfante di potenza, l'altra di bellezza, vinti entrambi dall'amore.

    Usciamo. Davanti alla barchessa, un saluto a Dainese e a Gallan: hanno in consegna le due boarie dei Labia. Dieci buoi da aratro, quattro vacche da latte, qualche sorana ed alcuni vitelli per ciascuna boaria. Sono bestie importanti, lo si vede dalla stalla dove vivono (che vale più di tutti i casoni dove si rifugiano i cannaroli di Cavarzere) e dai nomi che portano tanto le vacche (Aquila, Dragona, Sultana, Generala...) quanto i buoi (Ducale, Principe, Imperatore, Nobile, Famoso, Superbo, Ardito, Granatiero, Bell'Aria...). Una compagnia davvero spocchiosa e guerriera, guidata dal toro Portalanza.
    Ma come tra gli uomini non tutti possono essere dei Labia, così tra le mucche ecco intrufolarsi una mite Colomba, una comunissima Stella, e tra i buoi un Barbarin, un Trapolin, un Bizaro. Tutta colpa, immagino, di uno dei due bovari, dal cuore tenero e dimentico dell'onore di servire gli eccellentissimi conti Labia.

    Carlo Baldi, 16 maggio 2016


    Giambattista Tiepolo, Incontro di Antonio e Cleopatra. Part. (Palazzo Labia, Venezia)


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