Adele Albieri
Scrittrice cavarzerana (1877 - 1964)
con una nota biografica sul pittore Gino Albieri
Carlo Baldi
Grafiche Mariotto, Cavarzere, 2009. Pagine 188
Scrittrice cavarzerana (1877 - 1964)
con una nota biografica sul pittore Gino Albieri
Carlo Baldi
Grafiche Mariotto, Cavarzere, 2009. Pagine 188
Dal libro...
Ogni settimana la Domenica del Corriere pubblicava un racconto quasi sempre centrato sull’amore, un tema ripreso una decina di volte fra il 1912 e il 1915 anche dall’Albieri. Le sue erano storie calate per lo più in un ambiente borghese: vi agivano, con le loro donne, dottori e avvocati, ingegneri e artisti. Nelle vicende di questi personaggi le lettrici trovavano un’eco di quelli che potevano essere i loro stessi problemi di relazione sentimentale.
Ma al di là di ogni singola trama (il nascere di una passione che il mondo non potrà che condannare; la temuta scoperta di un lontano adulterio…) ciò che l’Albieri veramente racconta è il rapporto di coppia, messo talora in crisi dall’incapacità maschile di sintonizzarsi sul grado di sensibilità femminile. Accade in Ribelle, dove all’ottimo dottor Berti, tutto dedito ai suoi malati, sfugge l’inquieta ansia di vivere della troppo giovane moglie. Con intelligente occhio egli sa scrutare i mali fisici e giungere a pronte diagnosi, ma non coglie i segnali d’intimo disagio nella sua compagna.
In Rivelazione Giannello Croci, scrittore di successo e freddo esteta, non vuole invece conoscere nulla dell’animo della ragazza che da anni si è preso in casa e tiene per amante. Di lei gli importa solo la bellezza, il piacere che ne ricava, la soddisfazione nell’esibirla agli amici come una delle opere d’arte che possiede. Troppo tardi scoprirà l’umile dedizione di Lauretta e si renderà conto della propria imperdonabile aridità. L’armonia di un rapporto può essere insidiata anche da irrisolti problemi interiori. Nella novella Dell’altro, a niente varrà la paziente comprensione dell’ingegnere Dondi contro il patologico arrendersi della moglie ai fantasmi di un precedente amore perduto.
L’Albieri sa raccontare l’anima femminile nelle sue mille sfumature. Sentimenti e sensazioni, slanci ed esitazioni delle sue eroine sono stati osservati dalla scrittrice nella realtà o intuiti dalla sua capacità di analisi; ma s’indovina che vengono anche da un fondo di sofferte esperienze personali. Il rogo, per i tratti psicologici della protagonista, per la sua condizione famigliare, per i luoghi in cui la vicenda si sviluppa, dà l’impressione di una velata narrazione autobiografica.
Due soli racconti non propongono il consueto ambiente borghese. In Verso la fede si narra di Liliana, fattasi suora senza vocazione dopo che il fidanzato l’ha lasciata per sposare una donna ricca.
« Ella non aveva portato nulla di sé a Dio, nulla, nulla! Davanti a Lui, vestita dei sacri emblemi della carità, la piccola suora sentiva che soltanto le ginocchia del suo materiale involucro si prostravano nella polvere; l’anima no, né ora né mai, finché un palpito di vita avesse segnato il ritmo del suo respiro. L’anima le balzava anzi da quelle prosternazioni con uno scatto folle, che le dava quasi la vertigine: fuori, lungi, in alto, nella vita, nel sole, in un veemente e torturante e vano desiderio di vita piena e feconda.
Nei giorni di abbattimento e di stanchezza ella, discendendo in sé stessa, sperava bene di trovarvi il germe della rassegnazione, da cui rampollasse alfine il lento e tardo fiore dell’oblio! Ma nello stesso abbattimento torbido pareva si rinutrisse di ribellione sorda lo spirito; e di nuovo, balzante e urlante, le scattava di dentro, verso il sole, con tutte le ansie della sua femminilità, il più anelante fremito del sangue.
Dopo cinque anni di vita monastica ella non aveva potuto vincere sé stessa, malgrado un pacato desiderio di riposo le veleggiasse talora entro il tempestoso mare dello spirito.
Dio! Prostrata sull’altare ella avrebbe dato talora tutto il suo sangue per sentirlo in sé, grande e misericordioso; per obliarsi in un rapimento di adorazione dinanzi a Lui! Ma no! La suggestiva penombra della chiesa, il cerchio delle luci, il fascino dei fiori e dei profumi, i cantici e gli osanna, i silenzi mistici, austeri di tacite preci, tutto era per lei seduzione artificiosa, teatralità! »
Nell’intimo di Suor Angela – il nuovo nome di Liliana – si celano un chiuso dolore, un aspro risentimento, tali da renderla a lungo impassibile di fronte ai patimenti degli infermi che le sono affidati; ne trae anzi una specie di crudele gioia, che solo col tempo cede a un umano senso di pietà. Sopraggiunge la guerra. Fra i soldati ricoverati nell’ospedale Suor Angela scopre, febbricitante e mortalmente ferito, l’antico fidanzato. Egli ha serbato intatto il ricordo di Liliana, il rimpianto di averla abbandonata, e lei l’accompagna nelle ultime ore di vita lasciando traboccare la piena di un amore per anni represso nel cuore. La comprensione della Superiora, alla quale per la prima volta trova la forza di confidare il suo segreto, e il vedere da lei maternamente condivisa la pena per il morente, riavvicina Suor Angela alla preghiera, la predispone ad accettare con serenità il suo stato.
(“Adele Albieri, scrittrice cavarzerana”, pagg. 28-30)
Adele e Gino Albieri nel 1940 |
Una curiosità
Un volumetto edito dalla Carisch nel 1925 – Cantate, Bimbi – conteneva otto poesie di Adele Albieri musicate con arte dal compositore Leopoldo Emanuele Gennai. Un lavoro ispirato alle nuove direttive pedagogiche, tese a sviluppare nei fanciulli il senso estetico, giovandosi, per quanto riguarda la musica, di un valido repertorio che superasse la frequente banalità delle tradizionali canzoncine da gioco. Le poesie dell’Albieri vi hanno un’intonazione ora sentimentale, ora ironica e descrittiva; sono volutamente semplici, colme di tenerezza per il mondo dei bambini. L’operetta ebbe giudizi favorevoli e nel 1929 la Fonotipia provvide ad inciderla su disco con la voce di Conchita Supervia, celebre mezzosoprano spagnolo. Introduzioni recitate precedevano i singoli pezzi, mostrando l’affettuosa spontaneità con la quale la scrittrice sapeva parlare alla fantasia dei piccoli.
Quell’edizione è stata ora ristampata in un CD dalla casa americana Marston. Le “incantevoli canzoncine” – come vengono definite – si possono liberamente ascoltare su Internet digitando le parole Supervia Albieri Canzoncine. Sono un esempio delle qualità artistiche della Supervia, ma costituiscono soprattutto una testimonianza affascinante e forse unica per il brio, la freschezza e l'evidente sollecitudine materna con cui la cantante nelle introduzioni si rivolge ai piccoli ascoltatori raccontando di un suo immaginario Giorgino. E per questo rattrista di più il sapere che di lì a qualche anno Conchita Supervia sarebbe morta nel dare alla luce un bimbo.
Una novella di Adele Albieri
CHI HA UCCISO?
Certo lassù la bella rondine sorridente era tornata. Ecco qui un fascio di corrispondenza per lei: lettere, giornali, riviste e la più varia accolta di cartoline. Beppe Duni ripose il tutto nella bisaccia logora, se la gittò a tracolla, prese il mozzicone di toscano che aveva lasciato spegnere all'angolo del tavolo, si calcò sul capo spelacchiato la coraggiosa paglietta che aveva vittoriosamente lottato con tanti acquazzoni e tanti soli e borbottò fra i denti:
– Andiamo.
L'ufficiale di posta gli disse:
– Aspettate un momento, Beppe, c'è qui qualcosa per voi; l'ha mandato la signora di lassù; raccomanda un servizio scrupoloso.
– Grazie – rispose il procaccia, intascando senza aprirla la fine busta azzurrognola. Poi, accendendo quel restio mozzicone borbottò:
– Che ubbie! Il mio dovere faccio, signor Rinaldo, il mio dovere e basta! Dica lei se in vent'anni, dacché vado su e giù per questi monti, c'è stato un reclamo solo!
– Bene, e vi offende questo, Beppe? Una buona mancia non capita tutti i giorni!
– Già, arrivederci, signor Rinaldo.
Questi gli biascicò dietro un saluto gutturale, già chino sui suoi registri, mentre Beppe Duni, agile ancora sulle gambe allampanate, infilava la strada maestra, abbagliante tra il verde, che portava diritto ai piedi della montagna, svoltando bruscamente in una ripida scorciatoia faticosa.
Faticosa per tutti quelli che vi si avventuravano, non per lui. A lui, pur sempre carico com'era – la bisaccia, i fasci di giornali, le spese che faceva per sé stesso giù al paese a scopo di economia – a lui pareva che la strada ripida gli balzasse incontro da sé, da tanto ne conosceva ogni albero, ogni cespuglio, ogni sasso.
Spesso, sotto il solleone, in quell'ora meridiana si soffermava appiedi d'una robinia amica, ad asciugarsi il sudore dal volto abbronzato e riarso: un piccolo volto glabro e completamente raso, dagli sguardi obliqui, che parevano sempre pieni di sospetto e di dissimulazione.
Ma pare che nulla avesse da dissimulare Beppe Duni, che viveva solo solo da vent'anni lassù, in una sua cadente catapecchia un po' fuor di mano, dacché la sua giovane sposa, dopo due anni di convivenza, se n'era ita nel mondo dei più.
Discendeva al mattino presto, dopo aver raccolto la posta qua e là, in tutte le frazioncine di Montespano, e risaliva a mezzogiorno, dovendo giungere ora, dacché avevano costrutto quel grande albergo, nella vasta pineta della Viana, fino al culmine estremo della montagna. Fatica improba che la lunga abitudine smussava un poco, ma che lo gettava nel pomeriggio, abbrutito di stanchezza, sul suo giaciglio, un po' ebbro del troppo sole e d'un certo vinello paesano frizzante e amabile quanto mai.
La bella rondine sorridente, ecco, era tornata ed ora Beppe Duni l'avrebbe riveduta. Egli n'aveva un'ansia curiosa e rabbiosa insieme, senza sapere precisamente perché. Da tre anni, dacché l'albergo era stato attivato, la giovane donna veniva a passarvi ogni anno almeno quattro mesi. Ogni quindici giorni, ogni dieci giorni, talvolta più spesso, una ricca automobile si fermava laggiù, all'ufficio postale del capoluogo, per lasciar discendere un distinto signore un po' pesante e maturo, che chiedeva di sull'uscio al signor Rinaldo se v'era posta per Laura Argenti. E via, sbuffando su per la strada tortuosa, la bella vettura s'intravvedeva in un baleno alta tra i pini, già presso alla meta.
Quei giorni Beppe Duni, recando la posta al grande albergo, si soffermava più che il bisogno non lo consentisse ad affondare lo sguardo obliquo de' suoi occhietti grifagni nelle lontananze verdi dei viali, per scoprire Laura Argenti passeggiare al braccio del marito e talvolta sorprenderla nell'atto di stringersi al suo petto in così felice e caldo abbandono, ch'egli, l'escluso da ogni gioia, sentiva improvvisamente destarsi e ruggire in sé come un'indomabile fiera.
Tutti gli altri giorni, quando il marito non c'era, ella a lui veniva incontro e sorrideva! Cioè alla vita, al mondo, agli affetti, all'amore, chiusi entro quelle varie buste; ella impaziente veniva incontro e sorrideva, ma egli aveva come la sensazione di largirle con le sue rudi mani tutti quei tesori, divenendone ogni giorno più creditore di non so che bene.
Oh! Mai, mai aveva veduto sorridere così dappresso una creatura così bella, Beppe Duni! Pallido volto sottile che s'illuminava d'un tratto, innocente schiudersi d'una bocca calda e nervosa, e tutto pareva asservito a quella soavità. Ed in quel destino luminoso egli, il povero portalettere stroncato di lavoro e di miseria, nulla avrebbe potuto essere mai più che un freddo e amorfo trasmettitore; quantunque talvolta, dinanzi a quella chiarità di sorriso così infantile, torbidi baleni di concupiscenza gli s'accendessero nel sangue, come sferzate.
Per questo egli aveva imparato ad averle rancore.
Quando la rivide quel primo giorno ella gli parve anche più bella, più dolce, più doviziosa. Era come se vivendo e muovendosi ella facesse sue tutte le cose belle della vita, lasciando lui più nudo e più squallido; ed egli avrebbe morso e baciato quelle bianche mani che gli si protendevano incontro a ricevere la posta, a dargli quel brivido di perversità che gli metteva nel sangue un disperato bisogno di farle del male.
Ora ella discendeva ogni mattina verso la frazione vicina a imbucare di propria mano la sua corrispondenza, prima ch'egli passasse a levarla, e risalendo s'incontrava invariabilmente con lui.
Strana usanza che mai negli anni antecedenti aveva adottata, potendo disporre di tutti i servi dell'albergo e delle sue cameriere particolari. E nella cassetta fra la molta corrispondenza di lei, subito riconoscibile, ogni giorno Beppe Duni trovava due eleganti buste color lilla a caratteri viola, con due diversi indirizzi: una a Roberto Argenti, il marito, a Milano, l'altra, sempre più pesante e talvolta con doppia affrancatura, a Firenze a un altro nome maschile. Ogni giorno.
Fra tutte le lettere ch'egli doveva smistare e timbrare laggiù in ufficio, quelle due immancabili, ove era certamente tanta parte di lei, gli balzavano subito agli occhi dandogli non so che fremito profondo, come se al suo scrupoloso senso del dovere professionale quella presenza giornaliera usasse non so che violenza.
Aprirle? Leggerle? Mai! In vent'anni di servizio mai aveva mancato alla promessa solenne di onestà e probità fatta all'epoca della sua assunzione in servizio, quando lo avevano salvato dall'accattonaggio offrendogli quel posto dopo l'incidente di fabbrica che lo aveva gettato sul lastrico con la destra sfracellata.
Fu in un caldo pomeriggio afoso, mentre in piedi davanti a un grande tavolo nell'angolo più remoto dell'ufficio introduceva nei sacchetti di iuta i vari fasci di lettere secondo la loro destinazione, ch'egli s'accorse d'aver sbagliato mettendo nel sacco Milano la lettera di lei indirizzata a Firenze e viceversa. In quel rapido baleno Beppe Duni sentì con gioia puerile e satanica insieme che, sì, ecco, il destino di lei, bella, ricca, doviziosa, lontana da lui come la più remota stella, poteva anche essere nelle sue misere e deturpate mani un filo da tirare, un gesto da abbozzare, un'orma forse indelebile da imprimere!
Che sarebbe accaduto infatti se il contenuto dell'una fosse stato messo nell'altra?
Rapidamente, volgendo alla schiena immobile del signor Rinaldo, chino sui suoi registri, il suo sguardo obliquo, egli riestrasse dai sacchetti le due profumate lettere color lilla e con un lieve tremito della sua mano intatta le fece scivolare nella tasca interna della giacca.
Più tardi a casa sua, in quel tanfo di umido, di sporco, di chiuso, egli sudato, scamiciato, lurido, con pazienza e cautela infinite aprì le buste e ne scambiò il contenuto. Neppure una parola volle leggerne! E a che pro del resto? Egli non sentiva né curiosità, né gelosia. Tentava la sorte, così, con un bieco riso, come si fa alle volte con una moneta: testa o croce?
E l'illusione della più scrupolosa onestà professionale gli pareva salvata.
Passarono tre giorni, quattro giorni: nulla! Calma e tranquilla Laura Argenti discendeva come sempre per la nota scorciatoia col suo fascio di corrispondenza, tra cui ancora erano le due solite buste indirizzate al marito e all'altro; come sempre incontrava risalendo Beppe Duni e gli elargiva il suo sorridente saluto.
Dunque nulla era mutato nella vita di lei, sebbene Roberto Argenti avesse indubbiamente ricevuto i tre fogli zeppi di caratteri minutissimi scritti dalla sua donna per un altro? Ed egli era scioccamente illuso di poter creare in quella sua esistenza brillante l'ora nera, l'ora in cui la sorte cambia senza rimedio?
Ma il sesto giorno, discendendo in ufficio verso le nove egli trovò il signor Rinaldo sconcertato e nervoso:
– Sapete Duni che sono in ufficio dalle cinque di stamane io?
– Dalle cinque, signor Rinaldo? – chiese stupito.
– Già! Qualcuno è venuto a picchiare alla mia porta a quell'ora.
– Chi?
– Il signor Argenti, pensate, il signore che ha la moglie lassù a Montespano. Non ho mai veduto una faccia più convulsa della sua! Chiedeva mille scuse, ma voleva la posta, la posta della signora; saliva a Montespano per qualche cosa di urgentissimo, pare!
– Ce n'era? - chiese Duni, freddamente.
– Oh, qualche cartolina, un giornale giunto ieri a sera con l'ultima.
Intanto furono portati i sacchetti della posta e il procaccia attese alla solita bisogna con una certa impazienza nervosa, senza più parlare. Ben presto ebbe la bisaccia ricolma, accese il suo sigaro, salutò, uscì. Prima di prendere la scorciatoia s'arrestò in ascolto, parendogli udire il pulsare d'un motore discendere dalla strada carrozzabile, pei fianchi del monte. Stette un po' indeciso se prendere la strada maestra per incontrare la vettura, ma poi prese la solita scorciatoia. Incontrò qualcuno e salutò come sempre, picchiò a una casuccia rincantucciata tra i faggi per lasciarvi una lettera e fu ben presto a mezza salita, ove la viuzza s'incontra con la strada maestra, stagliata nella roccia, tra boschetti di roveri e di robinie in fiore.
Qui si fermò ansioso. Rapidamente un'automobile chiusa discendeva. Eccola. Guidava uno chauffeur dell'albergo e v'era dentro l'albergatore stesso con due camerieri che reggevano il corpo svenuto di un uomo. Beppe Duni ebbe la certezza precisa che questi non poteva essere che Roberto Argenti, quantunque in quella rapidissima visione non ne avesse potuto scorgere particolare alcuno, né di vesti, né di volto.
Barcollando un poco sotto il sole già cocente egli attraversò la strada e raggiunse l'ultimo tratto di scorciatoia. Arrivò a Montespano verso le dieci e nella piccola piazza sbilenca e sassosa del paese si soffermò un attimo tra un crocchio di femminucce cicalanti intorno a un vecchio, disceso allora allora col suo gerlo colmo di fieno dalla punta di Tenca, al lembo estremo della pineta della Viana.
– Oh! dite davvero, Menico?
– Povera signora!
– La vedevo sempre quando salivo all'albergo a vendere la frutta.
– Così bella e giovane!
– Ma...proprio ammazzata l'ha? Dite, Menico, proprio ammazzata?
– Oh Dio, perché?
– Gesummaria!
– E chi lo sa il perché? S'è tirato un colpo, poi, alla testa.
– Già! L'han portato giù all'ospedale.
– Ma morirà per la strada, morirà!
– Signore, perdonategli!
Beppe Duni non chiese nulla. Proseguì fermandosi di porta in porta, raggiunse l'osteria del Riposo, bevve mezzo litro tutto d'un fiato, in piedi. Le mani gli tremavano, aveva i pomelli accesi a sommo delle guance pallide.
Più tardi varcava il cancello del grande albergo, con la sua bisaccia a tracolla, mentre la stessa automobile ritornando portava le autorità per le costatazioni di legge.
Il padrone dell'albergo, tra uno stuolo di servi accorrenti, precedeva i signori guidandoli laggiù al limite del parco nel folto di un boschetto di basse acacie fiorite.
Macchinalmente Duni seguiva il corteo in uno smarrimento svagato che non gli permetteva di raccapezzare una parola sola di tutte le concitate frasi che gli giungevano all'orecchio.
Fresco era il chiaro mattino lassù, e profumato di magnolie e di rose; sereno e come fermo entro un vasto silenzio, che il lievissimo stormire delle fronde e qualche trillo di rondine saettante non riuscivano a turbare. Cime candide salivano lontano nella purità dell'azzurro, declivi verdi scendevano intorno, ammantellati di pini. Le indifferenti cose, vaste e luminose, facevano sembrare insignificante la piccola grande tragedia.
Il corpo di Laura Argenti, vigilato da due cameriere sgomente, giaceva sotto un bianco lenzuolo, riverso sul prato, all'ombra mobile di un'acacia.
Fu scoperto.
Il suo sangue giovane se l'era bevuto l'erba tenerella. Neppure una goccia sul suo candido vestito mattinale; e la tempia forata sfiorava la buona terra, adagiata nella massa dei capelli neri, appena un po' scomposti sotto il peso abbandonato della testa bellissima. Grandi palpebre violette frangiate di nero sul pallidissimo volto gentile, sigillato dall'invincibile sonno.
E qualcuno osa ora profanare quella purità soave d'abbandono infantile?
– No, no! – Beppe Duni, fremente, con sbarrati occhi di folle, vorrebbe gridare questo no che gli sale dai precordi e gli toglie il respiro. Ma non sa dare che un urlo spaventoso che fa allibire tutti gli astanti, lì, sotto quel sereno cielo, in quel silenzio, presso la giovane morta.
Gino Albieri: Il Colosseo visto da 500 metri di altezza (1926) |
Gino Albieri: La Basilica di San Pietro vista dall'alto - part. (1926) |
Gino Albieri: Piazza San Marco vista dall'alto (1926) |
Chi ha creato la nuova arte italiana dell'aeropittura?
LETTERA APERTA DEL PRIMO AEROPITTORE A F. T. MARINETTI
( Il Giornale della Domenica, 8-9 febbraio 1931)
Eccellenza,
ho letto molto attentamente nell’ultimo numero del Giornale della Domenica il suo manifesto su l’aeropittura, le sue dichiarazioni a nome dei futuristi, e i canoni che lei detta. Ho letto anche, ma con stupore, che i futuristi sono stati i primi a creare questa nuova arte italiana. Tutto il suo slancio abituale, tutta la sua bella originale forma letteraria, vulcanica e pirotecnica, le è servita questa volta a…sfondare una porta aperta, perché io devo rivendicare in pieno questa priorità.
Questa mia protesta e questa mia rivendicazione hanno bisogno di una breve premessa, e cioè: che ho sempre seguito con grande simpatia il movimento futurista ed ho sempre ascoltato le sue conferenze con spirito conciliativo, salvo qualche raro caso, come per esempio quello nella mia Venezia, molti anni fa (ero allora ancora studente), quando lei volle asserire con queste testuali parole che “verrà un giorno nel quale abbatteremo la Chiesa di San Marco ed il Palazzo Ducale, e faremo sorgere al loro posto delle fabbriche che anneriranno col loro fumo il detestato azzurro d’Italia”. Quel giorno credo di aver dimostrato anch’io che un buon veneziano non poteva assolutamente essere della sua opinione. Salvo dunque quel caso isolato, ho sempre considerato il movimento futurista come un’ardita pattuglia di punta verso nuovi orizzonti, e verso nuovi ideali.
Rivendico dunque in pieno questo primato soltanto perché fin dal 1925, per concessione del Governo, feci a scopo di studio una cinquantina di voli e fin dal 1926 scrissi sulla terza pagina del Giornale d’Italia, e del Piccolo una serie di articoli con questi titoli: Impressioni di un pittore in volo, Quello che si vede dall’alto, Paesaggi trasformati, Come si dipinge in volo, ecc. ecc. e nell’inverno 1926-27 alla Ainslie Gallery di New York presentai al giudizio del pubblico e della critica americana ben diciotto quadri fatti dall’alto. Il successo fu completo: tutti i quotidiani di New York, compresi gli italiani, e le riviste pubblicarono lusinghieri e larghi commenti, corredandoli di fotografie, ed il successo culminò con l’acquisto ufficiale, in blocco, dei quadri visti dall’alto da parte del Governo americano per i quattro dicasteri dell’Aviazione. Ancora oggi, su riviste e giornali si continua a pubblicare i miei quadri dall’alto, e ad inscenare polemiche e discussioni su questo argomento.
Io non intendo, con questa mia legittima rivendicazione, entrare in merito alla maniera con la quale i futuristi vedono la pittura dall’alto, ma solo stabilire che fin dal 1926 scrissi su la pittura dall’alto, dipinsi dei quadri che furono accolti molto bene dalla critica e che le mie opere sono ora di proprietà del Governo degli Stati Uniti.
Se volare in un prossimo domani entrerà nelle consuetudini della vita, e dipingere dall’alto nelle consuetudini dei pittori, siano essi futuristi, novecentisti o progressisti, sarà per me fonte di legittimo orgoglio essere stato il primissimo ad adottare il nuovo punto di vista.
Gino Albieri
(“Adele Albieri, scrittrice cavarzerana”, pagg. 180-181)
Gino Albieri: Vecchia porta a Venezia - 1924 - Olio su tavola, cm 40 x 48 (coll. Carlo Baldi). |
Recensioni e articoli:
P. Tieto, La Piazza del Piovese, maggio 2009
N. Sguotti, La Piazza di Cavarzere, luglio 2009